Sarte, sarti e stilisti
Un'arte molto praticata fino a qualche decennio fa, anche con qualche eccellenza
Inizia subito con una provocazione: “E fiöre d’incö e ne san gnanca tegnì l’aguccia in man”, questo per ribadire che fino agli anni ’70 tutte le ragazze sapevano cucire, ricamare, lavorare a maglia e rammendare; un àmbito di lavoro che oggi è ormai dimenticato, dove anche i verbi citati sono diventati obsoleti.
Nella prima metà del ’900, a Bedonia operavano tante sarte da donna: Armanda Serpagli du Séseru, l’Angiulina du Frédu in Serpagli, Maria du Russu, Lina Montanari de Lisö, Maria Bernabò, Maria Lagasi du Tumèsu, a Lucétta du Péru, Maria Fiduciosi du Sevéru (anche esperta in punture a domicilio), Deisi Orsi per le spalline cucite a "Nido d'ape", Maria Moglia da Murinèra e la sorella Chiarina: quest’ultima, viste le notevoli doti creative, si trasferì a Roma negli anni ’50 per divenire un'affermata stilista, ovvero "Clara Centinaro", firma dell’Alta Moda italiana.
Oltre alle sarte tradizionali, c’erano anche tante camiciaie (tra cui le sorelle Bergamaschi e le tre sorelle Squeri dette Du Seròn), c’era la Maria Bresadola e la famosa a Betéin-na (Elisabetta Serpagli ved. Gavaini), nonna di Peppino Serpagli, che era specializzata anche in vesti da prete, tra gli ultimi clienti l'allora giovane Don Renato Costa. Non solo, vi erano altre sarte, ma qualificate in indumenti intimi realizzati in seta e batista (filo di cotone molto sottile), tra queste l’Elsa Barozzi du Milcare, che realizzava mutande, reggiseni e sottovesti. Tutti questi capi erano realizzati e rifiniti a mano, con punti molto laboriosi e fini: in pratica, ne uscivano dei veri capi d’opera. Infine, le magliaie: queste donne lavoravano coi “ferri” e realizzavano maglie e calzettoni di lana.
C’erano anche diversi sarti che confezionavano abiti per uomo: un certo Bergamaschi e Gigino Bresadola, nella cui sartoria lavoravano anche due giovani apprendisti, Silvio Anelli e Lino Barozzi (e il nonno di quest’ultimo, Amilcare, era a sua volta sarto nella Pieve).
Una famiglia di sarti fu anche quella dei Verti a Ponteceno. Livio Verti (nonno dell’omonimo medico borgotarese), originario di Sant’Andrea Bagni, si trasferì in Valceno nei primi anni del ‘900. Sposò una ragazza di Illica, ed ebbero poi una femmina e cinque maschi: uno, il Dott. Luigi, divenne medico, e quattro furono sarti. Tra questi Domenico, il quale creò una propria linea sartoriale nella 5° Strada a New York. (La storia di questo sarto merita però un approfondimento, argomento che affronterò prossimamente con un articolo a lui dedicato).
Proprio per questo alto numero di attività sartoriali, nel centro storico di Bedonia erano presenti diverse botteghe che vendevano stoffe e materiale da cucito: Mariani e Cardinali in piazza Plebiscito, Gennari in piazza Sen. Micheli, la Lisetta Serpagli in via Trieste e Pierino Camisa in via Garibaldi.
Negli anni ’30-’40, con l’arrivo della macchina da cucire, il lavoro di tutte queste persone fu molto agevolato e velocizzato. Le macchine “a pedale” più in voga erano le Singer e le Pfaff. Negli anni '60, concessionaria della “Singer” per Bedonia era Ebe Conciatori (in foto presso la sub-agenzia che aprì ad Anzola), che per incrementare la vendita delle macchine organizzava corsi di taglio e cucito attraverso maestre-sarte inviate dalla sede di Parma. Al termine del corso era rilasciato un diploma e spesso (che era poi lo scopo del corso) le ragazze si compravano la macchina da cucire.
Per invogliare e orientare le ragazze ad avvicinarsi al cucito, diedero un notevole contributo le suore dell’asilo, dove c’era un laboratorio di cucito e ricamo, maglia e rammendo. Questo laboratorio era frequentato da tante fidanzate che preparavano il loro corredo da sposa, ma anche da quelle ragazze che non potevano pagarsi il corso di cucito, ma che sarebbero diventate, in qualche modo, clienti affezionate della mitica Singer.
Gli ultimi sarti attivi con un proprio “laboratorio di confezioni” sono stati Italo Errigo a Bedonia, negli anni ’80, e “Liliano” Galluzzi a Compiano, fino agli anni ’90.
Ha collaborato a questo post:
Bellissimo articolo Gigi...
Un'arte preziosa quasi dimenticata e in questi ultimi decenni anche sottovalutata dai grandi sistemi di produzione.
Se teniamo tanto al nostro Made in Italy credo ci sarà un ritorno reso più contemporaneo ed accessibile naturalmente...
Solo un ricordo meraviglioso del mio primo colloquio alla ricerca di lavoro come disegnatrice a Roma presso l' atelier di Clara Centinaro nell' ottobre del 1992...
Entrai in questo palazzo elegantissimo con la mia cartella di disegni per abiti da sera..ambiente tutto bianco panna...mi ricevette con garbo senza conoscermi e dopo una breve chiaccherata mi mostrò gli armadi pieni di abiti da sera e da sposa incredibili...il bianco in tutte le sue sfumature faceva da padrone!
Mi diede numerosi consigli su come proseguire la mia ricerca nell' ambito della moda....La moda è ricerca per questo andrebbe valorizzata partendo dalla memoria storica!
Bel ricordo di tante persone care, tra cui la Lisetta che mi confezionava i calzoncini per andare alle elementari...e poi: "Meghen", Guesepen, Giuvanen Verti e "U duttu" Luigen, amici della mia famiglia.
Meghen, Domenico Verti, quando andai negli anni settanta a trovarlo da "Macy's", mega negozio al centro di New York, che ricopriva un intero isolato e si alzava di circa venti piani, mi regalò una racchetta Spalding e tanti racconti, tra cui quello di quando servì "JFK" Presidente USA, vendendogli camicie e polo, nonchè quello di quando si incontrò per la prima volta con Don Renato Costa, proprio a NY.
Spero che su Esvaso appaia presto il tuo nuovo racconto su Meghen e gli altri fratelli Verti.
Grazie. Claudio
Il segreto di una buona sarta era il taglio. Mia nonna Bettina aveva una grossa assa di legno (tipo mastra per la pasta) su cui tagliava la stoffa con grosse forbici dopo aver segnato con un gesso dove tagliare.
Nei periodi di massimo lavoro (la prima vestizione dei seminaristi nel giorno dell'Immacolta) aveva qualche aiutante, come la già citata Luccetta Taburoni Ferri (du Péru) e più saltuariamente la Giulia du Ciccutellu (moglie di Italo Serpagli). Per cui il 7 dicembre eravamo in tanti a portare in allegria le nuove vesti in seminario. Pensate che lavoro fare le asole nelle vesti dei preti d'una volta, tra cui l'indimenticabile Don Costa! Io la ricordo più come sarta dei preti. Sebbene lavorasse per tutti. Da quando la ricordo io (anni 50), ha sempre avuto due macchine da cucire. Poi quando gli indumenti erano troppo consumati (rammendo dopo rammendo, riciclo dopo riclico) si portavano allo stracciaio (U strasee), che probabilmente poi li vendeva come stracci a Prato.
Altro che l'usa e getta di oggi, allora si riciclava tutto e tutti bevevamo (almeno nella Pieve) la buonissima acqua dei rubinetti che veniva da Monti. E quindi non c'erano le famigerate bottiglie di plastica da smaltire. Oltre ai citati negozi che vendevano stoffe, da noi veniva un commesso viaggiatore di Parma, certo Bola, con il suo campionario di stoffe anche pregiate, come la pura seta per le donne. Probabilmente venivano altre donne a comprar stoffe viste nel campionario. E poi si cucivano a macchina gli orli delle pregiate lenzuola di "pelle d'uovo" per i corredi delle future spose. Insomma roba da "Quando eravamo povera gente" di Cesare Marchi. O più, indietro nel tempo, da "Mille lire al mese" di Gianfranco Vené e "Pane nero" di Miriam Mafai.
Peppino Serpagli
La mia mamma a Bardi da bambina ha imparato l'arte del cucito proprio all'asilo dalle suore e ancora oggi, seppur la vista e le mani le giocano qualche scherzo, fa degli orli a mano da fare invidia alle più sofisticate macchine da cucire! Pensa che gliene abbiamo regalata una nuova ma non la usa perché sostiene di far più presto a mano! Dalle sue mani scarti e pezzi di stoffa insignificanti sono diventati abiti di carnevale letteralmente cuciti addosso fin da quando ero piccola. Io invece so far giusto il minimo indispensabile e rimpiango di non aver voluto imparare prima, quando avevo tempo e freschezza, a destreggiarmi con ago e filo. Penso che nelle scuole bisognerebbe tornare ad insegnare anche quella che una volta si chiamava "economia domestica": cucina cucito piccoli lavori di idraulica e falegnameria, perché i nostri giovani potrebbero riscoprire il piacere e la passione di svolgere anche lavori manuali che ormai si stanno perdendo...
Buon pomeriggio signor Cavalli ,nella fotografia di Anzola mi pare di aver riconosciuto mia madre che mi ha raccontato più volte di questi corsi.E'possibile in qualche modo avere questa fotografia visto che ingrandendola dal blog si sgrana. La ringrazio cortesemente. Monteverde Manuela.
Ciao Manuela,
la mail che mi hai indicato non è valida.
Buongiorno gentile signor Cavalli,mi scuso probabilmente ho invertito l'indirizzo ora non ci dovrebbero più essere ostacoli,la ringrazio e spero in una sua risposta. Monteverde Manuela.