Tanzania - Zanzibar

Febbraio 2007


Prima di ripartire voglio scrivere il resoconto di questa esperienza. Da qui, tra i ventagli delle palme. Da questo punto, in mezzo a lo svolazzare dei corvi, si vede e si sente l’oceano, quando invece c’è la Luna, luccica.
Ci sono momenti che rimarranno per sempre impressi nella memoria per i loro colori, per la gente, per i profumi. L’aria, un aroma di legno bruciato, indefinito, ma intenso, un profumo “d’Africa” che si mescola con quella che respiri e che non ti abbandona più. Questo territorio era sempre stato un luogo della mente, una meta di cui sentivo parlare, senza però essere in grado di indicarne l’esatta posizione geografica. Sono queste le caratteristiche dell’isola di Zanzibar, in Tanzania, nell’Oceano Indiano.
Il suo nome deriva da “zandj barr”, ossia “terra dei neri”. È infatti proprio il colore della pelle dei suoi abitanti a creare quel contrasto magnifico, indimenticabile, tra il blu del cielo e del mare, insieme agli abiti variopinti, fra il verde della rigogliosa vegetazione.

Sulla costa occidentale c’è Stone Town, il capoluogo dell’isola, ex sultanato ottocentesco. In questa città c’è un senso di vita e di inerzia che difficilmente si incontra in altri luoghi, il tutto tenuto insieme da una specie di magia: silenzio ed urli, persiane curate che sbattono su muri sbiaditi, case abbandonate a fianco di altre affollate, portoni spalancati nel vuoto con sovrastanti finestre traboccanti di panni stesi, negozi scarni tra una folla di mercanti agguerriti.
La parte interna è verde, solo verde. Lì ci sono infinite foreste, pascoli e piantagioni dove ho finalmente risolto il “mistero” che riguardava le piante originarie delle spezie, le stesse che ci troviamo quotidianamente tra le mani, insomma ho sfregato ed annusato la pianta del pepe, del caffè, del cacao, della vaniglia, dei chiodi di garofano, della noce moscata, della cannella…

I villaggi sono privi di ogni servizio, gran parte delle abitazioni sono in legno e fango, con il tetto di palma, senza elettricità, in compenso hanno un gabinetto immenso, grande quanto l’Africa. Una volta a settimana, su una bicicletta dalla grossa cesta, passa il venditore di turno per la consegna dell’acqua, del pane, del latte e del pesce, mensilmente quello delle stoffe.
Le spiagge, bianchissime e trasparenti, praticamente di "borotalco", sono invece disseminate costantemente di esperti venditori: dai “beach boys” puoi acquistare oggetti zanzibarini in ebano, collane e bracciali ideati dal popolo “Masai” o ingaggiare guide turistiche a pochi dollari.

Di quest’isola verde smeraldo ho portato con me la dolcezza di Tariq, il bambino che mi aiutava a raccogliere conchiglie; la fierezza di Abram, il Masai “stuzzicadente”; la gentilezza di Hussain; la personalità di “Caffè con panna”; le corriere fumanti e stracolme di ogni ben di dio; l’odore ripugnante del mercato del pesce; le vacche smagrite che si tirano dietro una montagna di cose e persone; la terra lavorata da donne chine e sole; uomini che oziano all’ombra del grande mango; l’infinità di ragazzini che sbucano da ogni angolo; il giallo dei grandi caschi di banane; le lunghe colonne di persone che all’imbrunire si recano al villaggio più vicino per guardare l’unica televisione; il greto dei fiumi “finti”; una partita a dama giocata con pedine di tutto rispetto “Coca Cola contro Pepsi” (un’eterna lotta) ed infine è difficile dimenticare quei villaggi “guarniti” da borse di plastica blu, con al centro il pozzo per l’acqua, brulicanti di bambini, con la scuola ad un’ora di cammino, con l’ombra degli alberi sulla strada sterrata, con la notte che ingoia le capanne, silenziose e spente, senza nemmeno un lumicino, e così buie per non disturbare la Luna… dai, lasciatemelo credere.