Il cappello di carta
Una generazione di imbianchini che ha contraddistinto questo lavoro per mezzo della loro "barchetta"
L’imbianchino, anzi il pittore, è sempre stata una delle figure tradizionali dei mestieri svolti nelle nostre case. I miei ricordi vanno agli anni ’70, ai “pittori” presenti a Bedonia. Un particolare curioso è quello che le società erano formate tutte da fratelli: Peppinetto e Angiolino Ambanelli detti “i Furnövi”, Arturo e Guido Lagasi, Flaminio e Mauro Serpagli detti “i Rôli” (e con questi ultimi per qualche anno, prima di essere assunto alla Posta, lavorò anche il terzo fratello, Carlo).
Il mio ricordo più vivo e indelebile di tutti questi artigiani bedoniesi è dato dal cappello che tenevano in testa, preparato sul posto, prima di prendere in mano il pennello: fatto in carta di giornale o con quella del sacchetto del cemento, piegata sapientemente per renderla una “barchetta” perfetta.
Un altro momento che non dimenticherò è l’imbiancatura della cucina di casa -e specifico la “cucina” perché questa necessitava di essere tinteggiata ad ogni primavera: lì era presente la stufa a legna e il fumo anneriva metodicamente le pareti; mentre nelle altre stanze, “sala” e camere da letto, avveniva ad ogni “morte di papa” e la nuova “mano di colore” era abitualmente accompagnata da una passata di “rullo”, a mo’ di decorazione arabescata.
Un po’ come era successo quando raccontai l’arrivo a casa mia della legna consegnata da “Bosi”, anche questa giornata era caratterizzata dal trambusto casalingo. Sì, perché la serata che precedeva l’arrivo del pittore si trasformava in una vera rivoluzione: si spostavano i mobili dai muri, con conseguente svuotamento del loro interno, si toglievano le tende alle finestre e i quadri dalle pareti, e tutto veniva ricoperto con fogli di giornale e lenzuola bianche: il piatto della lampadina centrale, la televisione, la stufa, il tavolo e tutto quello che poteva essere imbrattato dalle gocce di pittura… Durante la notte, sembrava la tipica stanza infestata di fantasmi.
Al mattino, di buonora, percepivo il loro arrivo fin dalla strada, mentre scaricavano dall’auto le scale, i bidoni di pittura e i pennelli con “il bastone”. Poco dopo, l’inizio del lavoro: una spatola iniziava a togliere le parti di pittura che sfogliava e poi svolazzava, tanto da far "nevicare"; a seguire, lo stucco di riempimento e la “prima mano” di bianco per coprire il nero della fuliggine. Nel primo pomeriggio si procedeva con le altre due “mani” di colore, solitamente pastello “giallo paglia o albicocca”, e con il tracciamento della riga per lo zoccolo grigio scuro.
Per i “pittori” era finita, era giunta l’ora di raccogliere tinozze e “tole” ormai vuote, lavare pennelli e rulli, e ricaricare il tutto sull’auto. In casa, invece, scattava l’operazione finale: apertura delle finestre per asciugare la tinta, rimozione delle gocce, prima che seccassero, depositate su porte e pavimento, dopodiché, seguiva la ricomposizione della cucina… tutto doveva essere pronto, tutto doveva tornare al suo posto per l’ora di cena. Nella stanza aleggiava ormai un gran bel profumo di pulito, un misto di pittura e detersivi, che ricompensava tutta la fatica di quella memorabile giornata.
Buongiorno
Molto bello questo intervento. Mi da lo spunto per ricordare uno dei miei primi datori di lavoro, Flaminio Serpagli, laltro era Attilio Biolzi, purtroppo tutti e due scomparsi.
Flaminio è stata una delle persone più influenti della mia vita. Lo ricordo sempre con commozione. Mi ha insegnato tantissime cose, una su tutte la correttezza .
Il secondo anno, in quel periodo andavo solo durante le vacanze scolastiche, in occasione del primo giorno di lavoro mi disse: questanno ti darò un po di più. Ovviamente non lh voluto, mi pagava già bene e con lui era un piacere lavorare.
Era sempre lui che mi diceva alle 17.30 quando la giornata giungeva al termine: guarda che è ora che tu vada, anzi, lè ura da nè.
Sentivo la sua stima, la sentivo anche dopo, quando nel tempo ho fatto dellaltro e per me, la stima di quel tipo di persona vale tantissimo.
Ricordo che durante il lavoro cantava sempre, fischiettava. Purtroppo dopo la morte di Carlo, si rattristò tantissimo al punto che non lho mai più sentito allietare la giornata con la sua voce.
Ricordo il suo furgoncino, un aborto :). Alla prima salita non voleva saperne di andare ma era bello lo stesso. O la sua A 112 blu che ho guidato tante volte quando mi mandata da qualche parte.
Ricordo il suo cagnolino con tutti i denti storti.
Ricordo gli attrezzi che aveva, pochi, ma belli per quello, utili e ben curati. Quando la sera si tornava nel suo garage per mettere un po di ordine.
Ricordo le birre ghiacciate che bevevamo dopo una giornata di caldo lavoro. Una in particolare ce lho ancora in mente. Lavoravamo a Casale e nel ritorno ci siamo fermati a Pelosa. Ricordo il sapore della birra e la freschezza, il piacere di essere lì con lui.
Ricordo la sua malattia, era un uomo molto schivo, timido e sapevo che non gli avrebbe fatto piacere landarlo a trovare in ospedale ma ci andai. Si non gli avrebbe fatto piacere, ma sono sicuro che ne fu molto contento.
Sono orgoglioso daver fatto limbianchino per qualche anno della mia vita, sono orgoglioso daverlo fatto con Flaminio.
Giù il cappello.... , Standing Ovation per Gigi Cavalli !
Il sig. Alessio... mi ha fregato il mio commento: chapeau e grande Gigi che ha fatto rivivere pienamente la situazione di quei momenti
Ciao a tutti,
volevo ringraziare Gigi per l'articolo, per aver ricordato mio papà Carlo e i miei zii Flaminio e Mauro. Ringrazio veramente di cuore Claudio per le bellissime parole su Flaminio. La correttezza e la riservatezza e la bontà d'animo sono qualità che contraddistinguevano tutti e tre i fratelli. E il canto... dev'essere genetico, perché anche mio fratello Michele, che ha imparato il mestiere da Flaminio, durante il lavoro canta.
Ricordo con piacere anche i berretti che Flaminio faceva a me e a mio fratello prima, e ai miei figli poi. E quel furgoncino... hai proprio ragione Claudio. L'ho guidato più volte anch'io e ti assicuro che per fare le salite incrociavo le dita nella speranza che non si fermasse.
Grazie ancora di cuore per i bei ricordi.
Erano ingegnosi i nostri uomini... Pittu'... muradu'... murate'... magnan.. lattune'... ovaro'... marengon e chi più ne ha più ne metta. Chi lavorava all'aperto si riparava il capo dal sole con un cappello di carta. Come ha scritto il Gigi nostro, con un foglio doppio di giornale 40x30 o con un sacchetto del cemento... Si costruivano il loro copricapo a punta che se ripiegavano all'interno diventava bustina militare.... Ma se lo facevano a barchetta con una pacca al centro diventava a due punte... che se si ripiegavano ai lati... diventava arrotondato.... ma poteva diventare da alpino e chissà cos'altro. Un origamo nostrano... pieghe a volonta'... e se mancava la carta... un bel fazzoletto da naso annodato ai 4 angoli... poteva bastare anche x andare a falciare il fieno o ai segantini nei boschi.
Ricordi commoventi della nostra infanzia, voglio ricordare il caro Angiolino, quando aveva finito di imbiancare nelle nostre case, riprendeva in mano i suoi piccoli pennelli per dipingere scorci bellissimi della nostra Bedonia, in più quando si rompeva uno specchio, tutti lo chiamavano per ripararlo, sapete come? Disegnandoci sopra una rosa o un fiore. L'ultimo che ho visto in giro era al bar Italo, prima che fosse ristrutturato.
Ricordo la meraviglia di noi bambini vedendo la creazione del cappello fatto coi fogli di giornale: era MAGIA PURA !!!
Grazie a Esvaso per avere rievocato questi indimenticati, indimenticabili, personaggi:
i "Furnevi", i "Roli" , i Lagasi, tutti "Pittu'" provetti.
Ognuno di quei fratelli laboriosi aveva un soprannome personalizzato. Peppinetto era "Veleno", forse per i suoi tanti gol che segnava per il Bedonia, per il Bardi e la Valtarese, che assomigliavano a quelli del suo idolo interista, come lui, Benito Lorenzi, ricordato dai tifosi come "Veleno");
Carlo Serpagli era noto come " Capitano" per il suo carisma di calciatore, in campo, dell' A.S. Bedonia e dei suoi trascorsi militari da Alpino (anche lui giocò pure per la Valtarese come Peppinetto); suo fratello Mauro veniva chiamato dagli amici "Miren", dall'inconfondibile "Humor"; Flaminio, pure lui calciatore del Bedonia, come suo fratello Carlo, allenava la squadretta, appena nata, detta del "Curato" (il mitico don Giuseppe), sul campo detto della "Folletta", nome della proprietaria del terreno da calcio.
E cosa dire dei due fratelli "De' Cavignega ", Arturo e Guido : piu' taciturno il primo e piu' facondo il secondo... molto affiatati nel lavoro di tinteggio. Il ricordo va a Guido quando chiedeva ad Arturo, in casa dei miei: " Gha' demma, Arturu, inna ponta de' russu in custu curuu...?" ( "La mettiamo, Arturo, un punta di rosso in questo colore ?" )... Arturo si faceva ripetere la domanda e poi annuiva, sorridente al fratello.
Di Angiolino e Peppinetto, ha raccontato nel libro "Molte vite una Vita" anche Ninetto Del Grosso, il quale lavorò per i fratelli "Furnevi" per qualche tempo (pag. 20 e seguenti, per chi fosse interessato). Chissa' che affreschi lassu' in alto...
Vi confesso che non volevo scrivere nulla perchè..... era già stato scritto tutto su questi due fratelli che hanno sempre lavorato in coppia. Quando capitava mi piaceva guardarli e lo facevo con ammirazione. Per la loro manualità ed abilità. Muovevano il pennello attaccato ad una asta e li intingevano quel tanto che bastava per evitare di sbrodolare eccessivamente il pavimento.
Angiolino divenne anche mio parente quando sposò Rosina sorella di mio padre. Li chiamavano "furnovu" perchè provenienti da Fornovo. A quei tempi la maggioranza delle persona andava ad imparare un "mestiere". Ogni attività artigianale era coperta e chi la praticava quando diceva: "vengo domani " rispettava la parola data.
Ma nei decenni successivi i mestieri furono, in gran parte, abbandonati. Vuoi per la scuola dell'obbligo e vuoi per la ricerca di un lavoro di concetto che non fosse faticoso. Ora se uno ha bisogno di un artigiano (idraulico, falegname, elettricista ecc,) deve sollecitare l'intervento venti volte. Ti dicono "lunedì" senza precisare di quale settimana.
Con rammarico ritengo che abbiamo perso dei professionisti che erano anche artisti. Sarà stata arte povera ma sempre arte era.
Mi scuso per il ritardo con cui scrivo e se vado un po' "fuori tema".
Anch'io non voglio perdere l'occasione di ricordare Flaminio Serpagli. Io e Flaminio
(stessa classe: 1941) negli anni cinquanta - ragazzini e poi anche adolescenti - siamo stati molto amici, in realtà limitatamente alle lunghe e assolate estati che passavo a Bedonia con la nonna, ma non per questo amicizia meno salda. Di questo ragazzino ho un ricordo bellissimo: mai uno sgarbo, una parola fuori posto, una prepotenza, niente; un carattere dolce e tranquillo. Ricordo lunghe scarpinate nei boschi e fresche serate a parlare di tutto quello di cui si parla a quella età: gli ultimi anni naturalmente anche di qualche "brivido" che le ragazze cominciavano a trasmetterci. Io venivo dalla "città"; qualche volta - è normale a quella età - ero oggetto di qualche burla, di qualche scherzo non del tutto piacevole. Da lui sempre buone parole e comportamenti leali ed amichevoli, incoraggiamenti.
Ricordo che era molto impressionato dal fatto che mi chiamassi esattamente come suo padre (Luciano Serpagli), il papà faceva il postino, mestiere durissimo a quei tempi. Poi l'inevitabile rallentamento del rapporto; qualche parola nelle mie saltuarie visite a Bedonia. Quando è stato malato era riservatissimo per cui non l'ho più visto ma il ricordo è rimasto insieme a tanta tanta nostalgia. Ciao Flaminio.