In quella cascina ci vivevamo in tanti. A volte c’erano anche tre famiglie.
Ci ritrovavano lì fin dagli anni settanta. Io ero l’unico maschio, l’unico cuginetto di quelle cinque bambine. Spesso mi escludevano dal gioco; talvolta ero io che dicevo di no a quel “matrimonio” ad essere il marito o il papà.
Tutto accadeva nell’aia tra gallinelle e faraone e conigli sciolti dai loro recinti. Intorno grandi campi, verdi in primavera e gialli in estate. La nostra cascina si elevava solitaria al centro di quella distesa, piatta e accaldata. L’unica ombra era quella del grande albero con rami a penzoloni che toccavano quasi fino a terra. Spesso ci nascondevamo anche dentro, rannicchiati con le ginocchia strette al petto, il cuore batteva per non essere scoperti. Sul tronco spiccava pure qualche iniziale intagliata da mani inesperte, una scrittura elementare.
Quando uscivamo da là dentro fuggivamo tra i prati, non c’erano confini, piuttosto ogni volta si spostavano con il passare del tempo, spesso ci allontanavamo anche di molto. Poi il sole quando cadeva ci richiamva verso la nostra casa laggiù.
Ci proibivano di uscire quando fuori era buio. Le stelle le abbiamo sempre immaginate, la luna si scorgeva dalla finestra davanti al letto. Non si vedeva l’ora che tornasse giorno per ricominciare.
Ora quel luogo non appartiene più alla nostra famiglia, però non l’ho dimenticato. Qualche anno fa sono ripassato tra quei campi, è stato inevitabile considerare la mia fanciullezza, tutti quei ricordi.
Il nuovo proprietario mi ha visto, sono certo che non mi abbia riconosciuto, Chiarendomi la sua proprietà mi disse che nulla era cambiato, solamente davanti alla cascina c’era un grande olmo che però i suoi rami rovinavano muri e tetto: s' me lo ricordo benissimo...ho risposto!
Vorrei essere abbastanza vecchia e annebbiata nei ricordi da non dovere più sentire i morsi del cuore, quello strazio quotidiano che fa talmente male da costringermi a cercare un qualunque posto per nascondermi a riprendere aria e vita. così da sola, come ho sempre fatto fin da bambina, nascosta sotto al tavolo a graffiarmi il viso per trasferire quel dolore così interno, fuori. Ma ci rimane per per poco fuori. Sempre troppo poco.
TRALENUVOLE
21/02/2007Seduta al tavolo della cucina. La luminosità della finestra è ancora debole. La luce è accesa. Sul gas la caffettiera ha da poco finito di rombare. Il fuoco blu adesso è spento. Sulla tovaglietta una tazza, la zuccheriera, una manciata di biscotti bucaneve, il cucchiaio leccato.
Una mano sul tavolo e l’altra sulla coscia. Il viso tirato giù a guardare il seno assieme a quella grande macchia di caffèlatte sul pigiama bianco di seta.