La "scuola" di Carlo Devoti
I quarant'anni di storia della scuola di sport ideata da Carlo Devoti: quando l'Appennino diventa ideale palestra di vita
A detta dei presenti: “è stata la più bella manifestazione dell’estate bedoniese”, le foto e il video che seguono ne daranno prova. Un vero peccato, invece, la non promozione dell’evento e la mancata presenza di un rappresentante dell’Amministrazione Comunale, anche solo per un “Benvenuti ragazzi a Bedonia”.
Ma come, quando e perché è nata la Scuola Sport, poi diventata Barilla? Tutti ben ricordano il “campo scuola” estivo che ha ravvivato Bedonia e le nostre vallate per diversi anni, accogliendo migliaia di ragazzi provenienti da tutto il mondo, con lo scopo di alternare momenti di sport ed escursionismo ad esperienze di aggregazione e inclusione.
A credere a questo progetto furono alcuni Amministratori della nostra Provincia: l’allora Sindaco di Bedonia, Maestro Renato Cattaneo, il Presidente della Comunità Montana Appennino Ovest, Arturo Ghiorzo, l’Assessore allo Sport/Turismo della Provincia di Parma, Italo Berni, e mons. Renato Costa che, insieme al Seminario Vescovile di Bedonia, manifestarono il desiderio di accogliere sulle montagne parmensi gruppi di giovani interessati a vivere la vacanza in un luogo salubre e dotato di molte opportunità. Fu così che la Scuola di Sport si insediò presso l’Istituto San Marco di Bedonia nell’estate del 1984.
Erano gli anni dove c’era la determinazione nel volere contrastare la degenerazione dello Sport e la voglia di offrire ai giovani nuovi modelli di ispirazione, oltre alla prima consapevolezza dell’inquinamento ambientale e con essa la richiesta di fare sport a contatto con la natura.
Fu proprio il connubio di queste due cose che spinse Carlo Devoti, insieme ad un gruppo di Istruttori sportivi, a pensare ad un contesto sano nel quale convogliare i ragazzi che allenava durante l’inverno, per proporre loro, in una palestra naturale, un’esperienza estiva comunitaria.
Questo proposito suscitò l’interesse dell’azienda Barilla, interesse che non si limitava al solo fatto di rappresentare un fenomeno locale o per l’aver posto l’alimentazione come uno dei temi privilegiati della Scuola estiva, ma per la capacità dell’iniziativa di aver ricondotto lo Sport nel suo alveo originale, permettendogli di accompagnarsi ai suoi naturali compagni di viaggio, quali l’ambiente e, più in generale, la salute del corpo e della mente.
E penso che oggi, come allora, venga spontaneo pensare al nostro Appennino come luogo ideale per una scuola all’aperto.
La formula del successo può essere riassunta in semplici ingredienti: lo scenario naturale, aria, acqua e cibo sano, l’entusiasmo di ragazzi che evadevano dalla città e il programma di buoni preparatori, o meglio ancora “Maestri”. Perché diciamolo, come ogni scuola che si rispetti, da un’idea di campo estivo si passò negli anni ad una vera propria esperienza di vita che ha permesso a molti bambini e ragazzi di crescere ed emanciparsi.
L’essere lontani da casa, il dormire in camerate, l’adeguarsi ai ritmi del programma o a quelli dei compagni, lo svolgere attività di aggregazione oltre a quelle puramente sportive si sono rivelate infatti attività utili per forgiare in alcuni casi talenti sportivi, in altri casi individui autonomi pronti ad affacciarsi sul mondo.
A distanza di anni ciò che è emerso come maggiormente apprezzato dai ragazzi all’interno della Scuola non si riferiva infatti alla pratica e al perfezionamento della tecnica sportiva, bensì alle opportunità di incontro, di amicizia, di sperimentazione di comportamenti sociali che, nella vita a casa, era poco presente e che nel campo estivo, invece, era loro possibile vivere al meglio, liberi dagli occhi indiscreti di insegnanti, amici, genitori.
La parola d’ordine era eterogeneità: al campo partecipavano ragazzi e ragazze dai 6 ai 16 anni di diversa estrazione sociale, talento diversificato, varie culture e nazionalità. Ognuno di loro viveva l’allontanamento da casa sulla base delle esperienze pregresse: gli abitanti delle città evadevano volentieri nel verde, i ragazzi dei paesi incontravano con curiosità coetanei che diversamente non avrebbero avuto l’occasione di conoscere, i timidi imparavano a definire la propria identità, i leader creavano la squadra, le diverse etnie si confrontavano.
E c’è un pizzico di orgoglio, in noi bedoniesi, nel sapere che i momenti maggiormente graditi tra i ragazzi fossero quelli legati all’aspetto escursionistico. Il fiume Taro, oltre che palestra di canoa regalava momenti di svago nei quali poter prendere il sole e fare il bagno.
I sentieri delle nostre montagne diventavano familiari grazie alla pratica delle mountain bike che sui crinali regalava alla vista lo spettacolo delle bellezze dell’Alta Valtaro. E, infine, la giornata più attesa per l’immersione totale nella natura, era quella dedicata all’escursione a piedi, solitamente sul monte Pelpi.
Alla luce di tutto ciò mi viene spontaneo pensare che, 40 anni fa, così come oggi, forse quello che emerge con disarmante prepotenza è che alla fine i tempi cambiano, il contesto socio culturale muta, ma le necessità dei giovani rimangono essenzialmente le stesse: valori in cui credere, esempi da seguire, passioni da coltivare, esperienze da condividere e un mondo sano che li sappia accogliere. E penso che, nonostante tutto, il nostro Appennino fosse e rimanga un bel mondo accogliente ed unico.
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