Artigiani, bottegai ed altre eccellenze
Fino agli anni '60 esisteva un'economia strettamente locale, dove ogni commerciante ambiva a produrre e promuovere al meglio il proprio prodotto
Gli esercizi necessari alla vita quotidiana del paese erano tutti presenti in loco e posizionati nel centro storico –e si noti che sono pochissimi quelli che, oggi, si svolgono ancora nello stesso locale, conservando nome e arredo originario. Numerosi erano anche i laboratori degli artigiani, soprattutto quelli di sarti, calzolai, falegnami, fabbri, meccanici. Pertanto, le attività artigianali e del commercio al dettaglio si trovavano una a pochi passi dall’altra, mescolandosi intimamente alla vita quotidiana dei Bedoniesi.
Queste realtà, oltre a rappresentare una comodità per gli abitanti, sostenevano una vita sociale vivace: un’occasione d’incontro, di chiacchiere, di scambi, insomma di relazioni umane.
A differenza di oggi in cui la situazione è molto cambiata, anche per la diminuzione di popolazione e l’aumento degli acquisti on line, entrambi fattori negativi che hanno influito particolarmente sui piccoli esercizi.
Così, per meglio individuare il tessuto economico che si sviluppava in paese, dai primi decenni del '900, fino agli anni ’60/’70 – poiché allora si viveva esclusivamente di artigianato, commercio e agricoltura locale – mi affido a ciò che mi racconta Maria Pina Agazzi:
“Tra le tante attività bedoniesi ne ricordo alcune… i laboratori di falegnameria erano quelli di Rossi Egidio u Gìdiu, Rossi Giuseppe u Bagàsu, e la società di Delchini e Ferri; mentre le officine di fabbri e maniscalchi erano condotte da Bertani Turetta, Ferruccio Bresadola e da diversi componenti delle famiglie Serpagli.
Tra le pur numerose botteghe, c’erano anche quelle dei materassai: si ricordano le sorelle Lagasi e Falampe, e Domenico Lagasi con il figlio Mario Menelìcche. Ugualmente degne di ricordo, le ricamatrici dell’asilo, guidate dalle suore cosiddette «Cappellone», i cui pregiati manufatti venivano inviati a Firenze per essere commercializzati in prestigiose rivendite. C’erano poi diversi negozi di commestibili, stoffe, merceria, ferramenta e pasticceria/drogheria -questa ultima bottega era gestita da Vittorio Pizzi e Maria Serpagli, specializzata nella produzione di ciambelle-, mentre mancavano quelli di abbigliamento (l’industria dell’abbigliamento confezionato è venuta infatti successivamente); ma, in compenso, c’erano tantissimi laboratori sartoriali.
Nel centro storico s'incontravano diverse osterie, trattorie, alberghi e bar, oltre alla gelateria artigianale della Gianna de Cilàn. Nelle frazioni, invece, si coltivava la terra. I contadini, anche se proprietari di poche pröse (piccoli appezzamenti di terreno ricavati spesso con dei terrazzamenti), coltivavano in gran parte frumento, mais, zucche e patate – famosa la qualità detta «quarantina», seminata soprattutto nella zona di Selvola; in Alta Val Ceno, le mele di Anzola e Chiesiola. Ma non solo: c’erano le castagne di Carniglia e Setterone, che venivano vendute in Piemonte per ricavarci i celebri marrons glacés, e poi, nocciole, noci, fichi e uva, sempre commercializzate all’ingrosso da Luigi Cavalli u Caghettù (foto di copertina), oltre che dal negozio di frutta e verdura di Camillo Danzi Milàn”.
In questa situazione di fiorente mercato agricolo, ci fu addirittura un “prodotto” che divenne tanto rinomato quanto ricercato, ed era il “vitello valtarese”: e non parliamo della celebre ricetta, bensì dell’animale stesso. Il motivo era comprensibile, poiché i nostri contadini allevavano il vitello con il solo latte e gli veniva sistemata una museruola in modo che non potesse mangiare l’erba o il fieno: “Le carni di questi animali erano bianche, tenere e saporite. Ricordo bene che, quando andavo in Riviera, le macellerie più popolari di Chiavari, Lavagna e Rapallo esibivano sulla vetrina il cartello: 'Disponiamo del Vitello della Val Taro' –e, a dir loro, era veramente ambìto”.
Sempre in tema di commercio di animali vivi, a quel tempo, c’erano diversi mediatori ad occuparsene: “Mi ricordo di Luisito, Treisètte, Quaranta e Bambén. Erano tutti commercianti che andavano direttamente nelle stalle degli agricoltori e opzionavano il vitellino – dopo l'immancabile frase rituale «Pìccia chì», a cui seguiva il nobile gesto della stretta di mano; poi, una volta cresciuto, lo trasportavano ai macellai della Riviera Ligure. Anche i nostri villeggianti, quelli che si fermavano a mangiare nelle trattorie di Bedonia, dopo averlo assaggiato, andavano dai nostri macellai per acquistare il pezzo di carne del famoso vitello della Val Taro”.
Come già detto: tutto un altro mondo.
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A Pontestrambo c'erano: il mio bar, quello di Luparia, quello di Mazza, quello di Gigino e il negozio di alimentari ed edicola di Macioni, tutti chiusi, Bedonia sembrava New York e aveva anche il bar Las Vegas, i tempi cambiano.
Oggi la situazione di Bedonia è purtroppo all'opposto e che è quella che conosco. Le frazioni non hanno più un'attività e i negozi del centro del paese sono mezzi chiusi. Soluzioni a breve non ne vedo
A quel tempo noi bambini andavamo nel negozio du Caghettù. Se c’era Gigino, tuo nonno, ci dava sempre la colpa di aver bruciato la fontana dietro la chiesa. Dietro al bancone c’era anche la signora Tina, tua nonna, e con le nostre 50 Lire a disposizione si prendevano 20 Lire di noccioline americane e 20 Lire di castagne secche… da notare che non erano a peso ma a “botto”. Con il resto di 10 Lire entravamo poi nella bottega di commestibili della Baderna per comprare i pesciolini di liquirizia. Allora c’erano tanti negozi, si usciva da uno e si entrava nell’altro, così come accadeva con le tante osterie. A Bedonia c’erano più persone ed era tutto un altro mondo, sicuramente più bello.
Allora c'era la voglia di lavorare. Oggi i giovani scappano se solo c'è da sporcarsi le mani o lavorare il sabato. Un lusso che si possono permettere anche grazie al lavoro che hanno fatto queste volentorose persone, che poi sono i loro nonni. Ma quanto durerà ancora questo ben godi ?
Tressette era mio nonno