Il coprifuoco dei nostri giorni
Le possibili analogie tra il vissuto del tempo di guerra e quello provato in questi ultimi mesi
Questa volta mi limiterò alla premessa, alla presentazione di un’altra storia di Maria Pina: che, a differenza delle altre volte, sarà in forma diretta e non “raccontata” dal sottoscritto a seguito delle nostre chiacchierate. L'occasione è quella di far rispecchiare la difficile situazione che stiamo vivendo in questi mesi in quella da lei analogamente vissuta negli anni ’40, cogliendone le possibili analogie e le differenze. Una testimonianza che vuole essere anche un omaggio dedicato a sua nipote Teresa.
G. C.
È praticamente finito il periodo di forzato isolamento e di grande dolore per la scomparsa di tanti amici e persone molto care, giorni in cui mi capita di ripensare alla mia infanzia e paragonarla a quella che sta vivendo ora la mia nipotina: io nata nel 1938, lei nel 2011.
Ricordo ancora bene il coprifuoco, i rastrellamenti, le sparatorie, le bastonate, le mitragliatrici, il pane nero, la scarsità di zucchero, la tessera “della fame” e il duro lavoro nei campi fatto dalle donne, mentre gli uomini erano in guerra o alla macchia. Questo virus ha creato una situazione strana, e in un certo senso anche peggiore; la mia nipotina la ricorderà come una guerra non fra di noi ma di tutti noi, contro un unico nemico invisibile, subdolo, implacabile e senza alcun sentimento, né positivo e né negativo, su cui poter fare leva. Anche durante la guerra c’erano vittime, disagi, pericoli e limitazioni, ma noi bambini conducevamo la stessa vita di sempre: scuola, chiesa, asilo dalle suore e a giocare con gli amici int'a Ciósa.
Oggi, invece, i bambini sono come prigionieri. Niente scuole, chiese, palestre, bande, giochi e neanche con i cugini o i vicini di casa. Nel periodo bellico, di sera, tutte le finestre venivano oscurate con carta blu (la stoffa non si trovava o costava troppo) per evitare che il famoso e temuto aereo “Pippo” potesse, vedendo le luci, sganciare le bombe. Era il terrore di noi bambini e sento ancora nelle orecchie quel rombo lontano, cupo, insistente. Per le nostre mamme, a volte, era quasi un alleato perché riuscivano a mandarci a letto presto.
Ora che ho sentito troppe volte le sirene delle ambulanze (grazie a tutti i volontari, medici, infermieri, farmacisti e a quanti lavorano negli ospedali!), ricordo addirittura con una certa nostalgia il rombo di “Pippo”, che su Bedonia non ha mai sganciato bombe. Gli uomini rimasti in paese la sera non uscivano, perché c’era il coprifuoco e se la ronda trovava qualcuno senza lasciapassare erano guai. Ma il controllo era composto da uomini e non da un virus che non guarda in faccia nessuno: per cui, sovente, questi addetti alla sorveglianza chiudevano un occhio e permettevano a queste persone di andare all’osteria per trascorrere qualche momento in compagnia.
Ricordo delle sere nell’osteria di mio padre “Perito” con simpatizzanti comunisti, fascisti democristiani o socialisti: trascorrevano qualche ora, parlavano della guerra, di politica, discutevano, alzavano la voce e concludevano la serata, dopo qualche bicchiere, cantando romanze e canti popolari, tra cui Bandiera rossa e Lili Marleen.
Le analogie che trovo tra la guerra vista con i miei occhi di bambina e la pandemia di Coronavirus vista con gli occhi della mia nipotina non sono dunque, psicologicamente parlando, molto diverse. Posto che allora i soldati tedeschi e i partigiani suscitavano in una bimba un certo magico stupore: i tedeschi per la divisa, il portamento austero e, sì, le armi; i partigiani per un certo fascino selvaggio.
Ho ancora negli occhi la figura di Gianni Moglia “Scarpa”, che scendeva da cavallo in via Trento con i capelli “alla Nazareno” e il fazzoletto al collo, come un vero e proprio “liberatore”.
Teresa invece ricorderà questo periodo con ansia e preoccupazione, perché la televisione, le sirene, i divieti e l’isolamento hanno portato troppo sconvolgimento nei rapporti umani e nelle abitudini di vita quotidiana. I “liberatori” o meglio i salvatori di oggi indossano strane maschere, tute e guanti, e solo per mezzo dei loro occhi possono trasmettere ai bambini calore, umanità e fiducia.
Che bello leggere questo pensiero, che è un ricordo. E quanto è fortunata Teresa ad avere una nonna che può raccontarle di quando era bambina... Il ricordo di Gianni "Scarpa" a cavallo, mi ha fatto tornare bambina: anche i miei nonni me lo hanno trasmesso!... E una lacrima è scesa...!
Grazie Maria Pina, che in poche parole hai descritto quei tuoi storici tempi così bene da farci immaginare di vederli.
Ringrazio sentitamente Maria Pina (e Gigi che ne è stato ambasciatore) perché con immagini e dettagli quasi plastici ci ha riservato il privilegio di confrontare i drammi generati da distinte situazioni.
Il suo racconto e l'atteggiamento di alcune persone in questo periodo di "distensione" sociale, mi hanno riportato alla memoria una perla di saggezza:
"Non cè nemico più temibile di quello di cui nessuno ha più paura".
(Dan Brown)
Adottiamo la massima cautela, perché il ritorno all'emergenza di alcune settimane fa sarebbe ancora più nefasto.
Bellissimo! Grazie Maestra!
La maestra Maria Pina... ha sempre il suo fascino, nel raccontare le situazioni... grazie.. bellissimo specchio del nostro tempo buio...
Sempre interessantissimi i racconti e i ricordi di Maria Pina. Spero che, prima o poi, ci racconterà di quando, ai tempi del boom economico non troppi anni dopo il periodo buio della guerra, Bedonia si riempì di nuove ville e villette, se ben ricordo alcune progettate dal geometra Dellapina.Tra queste le ville di Scarpa (Gianni Moglia) e della signora "A bionda" in via Roma. O quella "favolosa" (sembrava roba da Costa Azzura!) di una certa signora Ferri in Ri Grande.
Peppino Serpagli
Non c'è dubbio che Maria Pina è la "memoria storica" di Bedonia. Grazie anche questa volta.